Riflessioni:

Su uno dei gruppi che seguo di yoga ho trovato questa bellissima riflessione che mi trova d’accordo in ogni sua parola, la condivido con voi. Grazie all’autore.

Se mi dovessero chiedere i requisiti che personalmente ritengo prioritari in un insegnante di #yoga risponderei: il sorriso, l’empatia e la leggerezza.
Osservando nel tempo ho avuto modo di notare che spesso ci si prende troppo sul serio, si scherza poco; insomma si è troppo autoreferenziali.
Questo non vuol dire che impartendo lezioni di yoga – asana, pranayama e meditazione – si possano trascendere la messa in sicurezza o i significati pregnanti di tradizioni, testi e scuole di pensiero; al contrario, si potrebbe trovare una modalità di divulgazione dello yoga che sia consona all’interlocutore, al praticante, senza farlo sentire impegnato ad un traguardo, all’altezza.
Voglio dire: Margherita Hack ci raccontava l’astrofisica come se spiegasse ai bambini, ecco; Margherita Hack, ripeto.
Io credo che mettere a proprio agio il praticante, con leggerezza e accoglimento privo di aspettativa, motivi in lui una buona probabilità di avvicinarsi allo yoga, senza l’identificazione in un ruolo che preveda l’osservazione acritica di un maestro, di un insegnante o di una tipologia di pratica piuttosto che di un’altra.
A tal proposito: una volta vidi in spiaggia uno yogin bravissimo, perfetto nelle asana e nella scioltezza, assorto a guardare il mare mentre praticava, e devo dire che fu una bellissima scena; eppure non rise (sorrise) mai, e se ne andò senza volgere lo sguardo a nessuno dei presenti.
Ed io pensai: .
Ecco, quando riteniamo di avere qualcosa più degli altri, quando ci riteniamo “maestri”, “insegnanti” o “istruttori” che – per il solo fatto di praticare una disciplina peculiare – credono di poter dispensare consigli, suggerimenti o testimonianze di vita inossidabili, io penso dovremmo fare un passo indietro e iniziare nuovamente a praticare l’ascolto e la curiosità umile, ché se pensassi di essere giunto a lievitazioni di natura superiore per qualche nozione appresa e qualche spaccata perfetta, allora davvero dovrei interrogarmi di nuovo sul senso profondo dello yoga, che per il sottoscritto non è certo quello di essere relegato in una proiezione raffigurativa, quanto – al contrario – quello di destrutturarsi dal ruolo stesso e lasciare che il luogo di cui io sono espressione diventi crocevia di incontro, condivisione di esperienza, perfezioni ed imperfezioni di asana, di gioia e osservazione libere, prive di condizionamenti.
Credo che l’insegnamento migliore che io abbia condiviso con i miei praticanti sia stato – nel tempo, occasionalmente – quello del dolore alle mie ginocchia, dei miei abbassamenti di voce, dei miei limiti e delle mie evidenti asimmetrie.
Anche qui: si tende a pensare che la perfezione, che la posizione più difficile e complessa, siano i parametri indiscutibili ed indicativi di qualità e bravura.
Indubbiamente, se pur è vero che lo yogin bravo sia spesso espressione di talento e qualità, è vero anche che – altre volte – l’insegnante non riesca a pieno a rendere empatico il valore intrinseco dello yoga – il magma che scorre sotto, il senso profondo; giuridicamente potremmo dire la causa petendi, ciò in base a cui, ciò per cui – arrestandosi alla riproduzione dogmatica della tecnica esecutiva, forse per timore di fallibilità.
E mi spiego con un esempio: sareste voi propensi a giudicare le abilità di un bravo cantante – o di un cantautore – avendo come parametro esclusivo quello della sua estensione vocale?
Sarebbe giusto e possibile trascendere la vibrazione del suo canto, della sua peculiare timbrica, delle sue imperfezioni espressive, del suo talento innato, delle parole che pronuncia e dell’emozione che esprime?
Quindi, per chiudere questa mia riflessione, diciamoci la verità: quanto siamo disposti ad ammettere di essere ego-riferiti?
E mi chiedo, ancora: quanto – per questo – trascuriamo davvero dello yoga.

Cit.